Accogliere - Una Sfida PossibileGli occhi gli brillano, mentre attende di fare un colloquio. La prospettiva è quella di ricevere un orientamento, forse la possibilità di un tirocinio che si potrebbe trasformare in lavoro. Oluwa, nigeriano, 26 anni, stringe fra le mani il suo curriculum e chiede: "Ma al colloquio posso parlare inglese?" "Non credo, no, dovrai parlare italiano. Ma che problema c'è? Lo parli bene" lo incoraggia Irene, amica incontrata presso la struttura dei Guanelliani. Proprio nella Casa di via Tommaso Grossi sono ospitati 17 profughi.

"Aprire le porte per noi è quasi naturale, l'accoglienza è nel DNA ereditato dal santo fondatore don Luigi Guanella" ammette don Nando Giudici, economo provinciale dell'Opera, ricordando la segnalazione da parte della Chiesa locale e della Prefettura, lo scorso luglio, di un gruppo di giovani migranti africani in cerca di ospitalità. "Erano una decina di profughi nigeriani per i quali è stato relativamente facile trovare una sistemazione, compatibilmente con la complessità della nostra struttura che oggi si occupa di anziani e minori. Ma il vero problema non è quello logistico - racconta don Nando parlando della qualità dell'accoglienza - Il numero poi è anche aumentato, l'aspetto più impegnativo riguarda, però, la possibilità di offrire un percorso formativo, di aiutare chi arriva a inserirsi nei nostri contesti".

Accogliere - Una Sfida PossibileIl pensiero torna allo sguardo luminoso di Oluwa, al suo sorriso, mentre racconta il suo sogno: "Posso lavorare in un ospedale o in un bar" dice mostrando il foglio dove ha messo in fila tutte le sue abilità, la conoscenza dell'italiano e dell'inglese, un titolo di operatore sanitario conseguito in Nigeria, un corso nel settore della ristorazione frequentato a Como.

"Nella mia vita non ce l'ho la paura" ripete a Irene che lo accompagna con particolare empatia. "So che cosa si prova...avevo 13 anni quando sono partita dall'Albania, ho dovuto imparare tutto, a cominciare dalle prime parole di italiano" racconta Irene lasciando intendere che la strada dell'integrazione, non certo priva di difficoltà e frustrazioni, può approdare a una meta. "Io dopo 11 anni in Italia, tornando nel mio Paese mi sono sentita un'estranea, ero cambiata" dice, lanciando un'occhiata ai suoi amici che sono ancora all'inizio di un'avventura che presenta tante incognite e un inevitabile disorientamento.

Accogliere - Una Sfida PossibileImparare l'italiano, per esempio, è duro, ancor più difficile per chi non sa neppure leggere e scrivere, ma Oluwa non è fra questi, con le lingue se la cava bene e in Nigeria parlava diversi idiomi locali oltre al "pigi english" un inglese con accenti africani. "So che c'è la difficoltà, ma non mi fa paura... Quando sono partito non sapevo cosa mi stava succedendo... mi sono trovato su una grande barca talmente carica che un piccolo spostamento del mio corpo poteva far cadere qualcuno in mare, farlo annegare..." Si ferma, preferisce non dire più niente di quel viaggio. Preferisce guardare avanti: "Se c'è la difficoltà, non mi fa paura, ce la posso fare, voglio lavorare" insiste sapendo di mettere a fuoco il vero problema, il problema di decine, centinaia di immigrati che come lui sono partiti allo sbaraglio, sapendo di dover imparare tutto, mentre seguivano il loro istinto di sopravvivenza o forse un vero sogno. "Anche le scarpe sono un problema..." riprende. In che senso? "Noi non le usavamo le scarpe, non siamo abituati, al primo momento è un po' difficile..." dice soffermandosi su un particolare da niente nel contesto di un dramma definito da tante, troppe incertezze, a volte ostacoli insormontabili.

Ogni racconto, ogni storia degli immigrati in fuga da guerre e persecuzioni o in cerca di "fortuna", dove la parola è sinonimo di sopravvivenza, lascia sullo sfondo le vicissitudini di un viaggio rischioso, per molti tragico. "Pochi raccontano del passato, dei motivi che hanno spinto a partire... chi ne parla, a volte sembra preparato a fornire dettagli particolarmente inquietanti, persino terrificanti, quasi con l'intento di suscitare commozione" riferisce Daniele Defendi operatore che segue i percorsi formativi dei giovani africani ospitati al Don Guanella e che ha imparato a decifrare le loro attese da sguardi e gesti, più che dalle parole. "Bravo Abdul, adesso ripassa il rullo in senso inverso" dice facendo segno con il braccio a un giovane impegnato con altri due nell'imbiancatura di un soffitto. Gli occhi sgranati di Abdul, neri come la sua pelle, fanno capire che il concetto è chiaro: il rullo che tiene fra le mani viene posizionato nel verso giusto e il lavoro prosegue.

Accogliere - Una Sfida Possibile

"L'accoglienza deve prevedere la possibilità di formazione in vista di un inserimento lavorativo" osserva ancora Daniele, accennando a diverse realtà attive su questo fronte, come Caritas, ACLI con Questa Generazione, il Consorzio il Solco e molte altre cooperative e associazioni.

"Cinque dei nostri giovani stanno facendo il tirocinio all'interno di una scuola professionale e, in teoria, si preparano in futuro a lavorare..." Perché in teoria? "Se alla fine della scuola, quando avrebbero la possibilità di lavoro, non hanno ricevuto il permesso per rimanere in Italia, nessuno di fatto li potrà assumere" dice puntando l'attenzione su un'incongruenza che rischia di far naufragare tutto il complesso e impegnativo sforzo che ruota attorno all'accoglienza dei richiedenti asilo.

Accogliere - Una Sfida PossibileIl meccanismo è noto, uguale per tutti a livello nazionale, e poggia su una distinzione che peserà sul destino di chi approda sulle coste italiane illudendosi, forse, che il peggio sia passato. Decisive sono le ragioni che hanno spinto ad abbandonare il proprio paese: solo se risalgono a situazioni di guerra, persecuzione, aprono il riconoscimento allo status di "profugo" e a una più probabile prospettiva di ottenere il permesso di soggiorno, mentre per chi è spinto da povertà, denutrizione, degrado e calamità naturali, diventa quasi impossibile legalizzare un inserimento sociale definitivo.

"Noi li chiamiamo con un nome e un cognome, per noi non sono né profughi né migranti, ma persone che intraprendono il loro viaggio della speranza per recuperare dignità, istruzione, la possibilità di affrontare il futuro" chiarisce Roberto Bernasconi, direttore della Caritas della Diocesi di Como. Una sintesi che si traduce in progetti che rendono l'accoglienza molto concreta, descrivibile in luoghi, mense, strutture, letti, indumenti, quaderni, ore di scuola... in organizzazione supportata da operatori, volontari, risorse umane ed economiche.

Accogliere - Una Sfida Possibile

A Como, ad esempio, per iniziativa della Caritas è nata la cooperativa Simploché che dall'inizio del 2015 gestisce l'ospitalità di 75 richiedenti asilo: "Seguiamo il modello dell'accoglienza diffusa, evitando grandi concentrazioni, favorendo cioè l'accoglimento di piccoli gruppi in diverse strutture e territori in modo da agevolare l'integrazione" spiega Alessio Cazzaniga operatore della stessa Simploché. La cooperativa opera infatti utilizzando appartamenti e spazi messi a disposizione da parrocchie o enti religiosi: una decina di immigrati, ad esempio, hanno trovato spazio presso la parrocchia di San Rocco a Como, altrettanti nella parrocchia di Lomazzo. Per ogni struttura è attivo un educatore, dipendente della cooperativa, che organizza iniziative volte all'integrazione con il supporto del volontariato e della comunità.

Un'altra esperienza è in via Borgovico a Como: a coordinare il servizio per 37 profughi, nello stabile dell'ex caserma dei carabinieri, è la Fondazione Somaschi Onlus. Mentre a Tavernola, quartiere di Como, un enorme immobile di proprietà dei Salesiani, è stato affidato in gestione alla cooperativa Il Focolare per l'accoglienza di oltre 200 richiedenti asilo.

Sono del resto sempre le cooperative o altre realtà associative che, su mandato delle prefetture, assumono un incarico di "gestione" dell'accoglienza, sostenuta dal finanziamento statale che prevede 34 euro al giorno per ogni immigrato, a copertura dei costi di vitto, alloggio, pulizia e manutenzione dello stabile, mediazione culturale, assistenza legale, visite mediche.

Il cliché per fornire ospitalità, a partire dal contributo dei 34 euro, che comprende anche un "pocket money" (somma personale) giornaliero di 2,50 euro per ogni profugo, è standardizzato. Tuttavia le modalità d'accoglienza possono essere diverse a seconda dei contesti e del rapporto che si crea con le comunità locali.

"Dietro ogni operatività c'è un progetto, una precisa visione dell'uomo e del suo valore": così don Giusto Della Valle parroco di Rebbio, fra i primi ad aver aperto le porte sensibilizzando l'intero quartiere, delinea un metodo d'accoglienza che va oltre la logistica di posti letto e pasti caldi, e si dipana in una condivisione della vita che diventa proposta educativa continua, quotidiana, capillare. Parla di giornate ricche di impegni, ore di scuola, sport, tirocini formativi per aiuto cuoco piuttosto che nel settore agricolo o dell'artigianato, escursioni sul territorio per conoscere le bellezze naturali e artistiche, occasioni di preghiera secondo i diversi culti, partite di pallone... Insomma don Giusto descrive la vita che scorre accompagnata dall'intervento educativo garantito da insegnanti e formatori, professionisti retribuiti o disponibili a offrire tempo e competenze gratuitamente.

Accogliere - Una Sfida Possibile

Non manca qualche nodo critico nel racconto del prete che dal vangelo ricava una sfida per l'oggi: "I 34 euro servono a coprire anche gli stipendi degli educatori che sono fondamentali... E si riesce pure a mettere da parte qualcosa, piccole somme risparmiate da ciascun immigrato che impara a non spendere per intero il pocket money" dice portando l'attenzione su parametri indicativi per la qualità dell'accoglienza.

"Dubito che realtà gestite con una grande concentrazione di immigrati, magari 200 e più, con il supporto di due o tre operatori, possano offrire un percorso realmente basato su relazioni educative" nota don Giusto evidenziando un'altra contraddizione paradossale, quella cioè di prevedere un'accoglienza senza sbocchi che, dopo un iter burocratico che dura mediamente un paio di anni, si conclude con un definitivo diniego della domanda d'asilo.

"Sarebbe assurdo e inutile il nostro impegno di accoglienza, totalmente fallimentare" ammette ricordando che il respingimento delle domande riguarda un numero elevato, circa il 85% dei richiedenti. "Sarebbe tutto inutile" dice usando però il condizionale... "Quel che dà valore alla permanenza degli immigrati nei nostri centri, è la possibilità di acquisire un bagaglio di esperienze e apprendimenti che può rappresentare una svolta, l'inizio di un futuro anche per chi deciderà di tornare in Africa o andare altrove...".

Accogliere - Una Sfida Possibile

Questa ottica, del resto, suggerisce il filo conduttore in tante situazioni investite dalla consistente ondata migratoria: in alcuni casi sono le comunità di quartiere a raccogliere una sorta di sfida per superare pregiudizi talvolta inevitabili, alimentati dalla diversità di abitudini e sensibilità. "Ci chiediamo cosa fanno tutto il giorno questi giovani di colore in giro per le strade, muniti di telefonini... vorremmo capire cosa possiamo fare... ma il razzismo non c'entra" si affretta a dichiarare una residente della zona di Villa Olmo che ammette di aver spezzato qualche pregiudizio una domenica, vedendo numerosi immigrati impegnati nella manutenzione del verde.

Le argomentazioni pro o contro la possibilità di una reale integrazione difficilmente sgretolano luoghi comuni e disinformazione, più efficaci sono i fatti, come le iniziative che creano occasioni di incontro e interazione nel territorio.

L'associazione Tavernola Attiva, per esempio, ha coinvolto decine di richiedenti asilo in lavori socialmente utili e l'esito è stato immediato, rimbalzato anche su FaceBook: Più che Tavernola Attiva sembrava Ghanaattiva - si legge in un post- abitanti di via Campari e Saporiti oggi avete da ringraziare tanto questi ragazzi... "More work" (più lavoro) continuavano a chiederci... instancabili ci hanno pulito anche il parcheggio zona lago. "I'd like to work every day like today" (Mi piacerebbe lavorare ogni giorno come oggi) mi ha detto uno di loro.

Un altro esempio - e non si tratta di un caso unico - si rintraccia nella zona di Varese: Il sindaco di Comerio, Silvio Aimetti supportato dalla giunta e dalla maggioranza consiliare, ha attivato un progetto prevedendo per 7 richiedenti asilo, l'apprendimento della lingua italiana e una fase di inserimento sociale. L'iniziativa ha sviluppato una concreta operatività: con la collaborazione di varie realtà, scuole, parrocchia e associazioni, dallo scorso settembre gli stessi immigrati sono stati coinvolti in attività di volontariato utili alla comunità.

In una miriade di situazioni, piccoli paesi, quartieri, condomini o parrocchie, si rintracciano i segnali di una interazione possibile, che spesso inizia dall'affronto di un bisogno istintivo ed elementare come quello di comunicare e farsi capire. La scuola, come ripetono in molti, è fondamentale in un processo di integrazione.

E non rappresenta un percorso a senso unico: anche chi insegna impara, conosce, si stupisce...

"Il primo giorno di scuola in un locale della parrocchia di Sant'Orsola ho provato un senso di smarrimento forse pari a quello dei miei studenti provenienti da diversi paesi per lo più africani. Mi guardavano con gli occhi sgranati, di italiano conoscevano forse una decina di parole, non sapevano da che parte si aprisse un quaderno e come maneggiare una biro, ma erano attenti, desiderosi di capire" racconta una volontaria, insegnante in pensione già da diversi anni. "Ho pensato di suggerire come compito di ascoltare tanto la radio e la televisione. Dopo qualche lezione qualcuno arrivava e mi diceva subito con entusiasmo: "Ascolto radio, ascolto tanta televisione, ascolto notizie". "Bene, cominciate a capire qualche parola?" chiedevo. "No, no niente. Non capire..." insistevano." Mi volevano raccontare la loro tenacia, la voglia di imparare... e non vedevano l'ora di ricevere l'attestato, una specie di pagella che ogni tre mesi registra i loro progressi".

Accogliere - Una Sfida Possibile

Scuola, progetti, compagnia, un'avventura che può durare pochi mesi o anni, in qualche caso riempie solo lo spazio di poche ore: "Dalla Siria, dall'Iraq, in fuga da guerre e persecuzioni, giungono alla frontiera svizzera e vengono sistematicamente respinti" riferisce Luciana Spalla responsabile della sezione comasca della Croce Rossa, spesso interpellata dalla Polizia della dogana per un intervento di sostegno ai profughi. "Si tratta sempre di famiglie, spesso numerose, che arrivano al confine con l'intento di proseguire il viaggio verso il Nord Europa, fino in Svezia o Norvegia, dove sono attese da parenti" precisa descrivendo interventi d'accoglienza immediati e brevissimi. "Qualche giorno fa siamo andati a prendere una famiglia di siriani, marito e moglie con tre bambini piccoli, lei incinta all'ottavo mese. Li abbiamo portati nella nostra sede della Croce Rossa dove non mancano mai scorte di latte, biscotti, pannolini, indumenti e anche qualche giochino per i piccoli... I bambini sono sempre i più felici, sorridono, vengono in braccio, si lasciano coccolare. Una volta rifocillati, hanno ripreso il loro viaggio tornando a Milano per evitare la frontiera elvetica".

È un'accoglienza che lascia forse il ricordo di un abbraccio, di un vestito asciutto, di un boccone... un piccolo incancellabile segno. Forse. Come ogni gesto di accoglienza che, prima di strutturarsi in programmi, organizzazione, pratiche burocratiche, strategie e strutture da gestire, inizia da un incontro, dall'incrociarsi di uno sguardo umano irripetibile, assolutamente decisivo.